Proponiamo l’intervista di Maria Paola Pietropaolo - pubblicata lo scorso anno sulla rivista SZ - a Maria Rita Parsi, psicologa, psicoterapeuta, docente, saggista e scrittrice su un tema di grande attualità, i possibili rischi legati all’utilizzo scorretto dei social media.
MARIA PAOLA PIETROPAOLO – Grazie, professoressa, per la sua cortese disponibilità. Vengo subito al tema della nostra chiacchierata. Alcuni recenti fatti di cronaca hanno brutalmente portato all’attenzione pubblica i rischi connessi all’uso dei social da parte di ragazzi e bambini in età sempre più precoce. I giochi crudeli, le sfide estreme, ma anche gli atti di vero e proprio cyberbullismo ci lasciano sgomenti e preoccupati. Lei che conosce così bene l’universo giovanile, la natura dei legami familiari e ha esplorato anche gli aspetti oscuri delle fragilità umane, come interpreta questi fenomeni?
MARIA RITA PARSI – Penso che i ragazzi non facciano nient’altro che mettere in scena quello che assorbono come spugne dai due contesti principali di vita: famiglia e scuola. Infatti, se l’ambiente in cui vivono è disfunzionale, pieno di conflitti e di sofferenze; se quello che ricevono come informazione dai media è qualcosa che li allarma, così come allarma gli adulti intorno a loro che magari non sono in grado di contenere o canalizzare i loro malesseri, le loro difficoltà e problemi, i ragazzi non fanno altro che metterli in scena in varie forme. Diventano molto violenti oppure depressi, si chiudono nelle loro stanze quando ce l’hanno, isolandosi nel mondo virtuale quando hanno gli strumenti del virtuale. Oppure mettono in scena proprio il conflitto, quindi individuano il nemico o un elemento di fragilità che è la proiezione della fragilità che sentono dentro di loro e cercano di aggredirlo e di abbatterlo. Questa è la radice del bullismo e, ovviamente, nel mondo virtuale tutto questo diventa cyberbullismo che ne moltiplica gli effetti più devastanti. Quindi attenzione, certamente le vittime del bullismo sono da individuare e sostenere per dare loro una risposta e perché non vengano più aggredite. Ma anche i bulli e cyberbulli, soprattutto se sono bambini, preadolescenti o adolescenti, sono persone che dimostrano il loro malessere attraverso gli atti di persecuzione che fanno nei confronti di quelli che considerano più deboli o più fragili, diversamente abili sia a livello fisico che mentale, oppure anziani. C’è una specie di violenza dentro di loro che è incontenibile e deve trovare una via di espressione. Nelle situazioni migliori, c’è un ambiente che funziona, che contiene, che ascolta, comprende e dà strumenti. Infatti, se ci sono persone che danno una risposta e sanno usare strumenti scientifici e di sostegno come la psicologia, la sociologia, la pedagogia, la filosofia, l’antropologia, la psicanalisi, la neuropsichiatria chiaramente i problemi si affrontano con strumenti più appropriati. Se ci sono adulti autorevoli che danno una risposta usando questi strumenti e educando all’uso di questi strumenti, oltre che quelli dell’arte, della scrittura, poesia, teatro, psicodramma, drammatizzazione, musica, sport, il virtuale virtuoso... se i ragazzi trovano questi canali, possono esprimersi e liberare le loro energie e ansie. Altrimenti il meccanismo è mettere in atto persecuzioni e violenze che sentono di aver subito fisicamente e psicologicamente nei confronti di quei soggetti che sono più fragili e deboli. Anzi, cercano di attirare l’attenzione degli adulti con atteggiamenti di chiusura o di distruttività o di malessere anche fisico, perché non dimentichiamo che anoressia, bulimia, obesità sono segnali — il cibo è il primo legame con la vita — che preadolescenti e adolescenti adottano, così come i disturbi del sonno, ansia, angoscia, distruttività o forme di autolesionismo per spostare il dolore psichico verso quello fisico; sono questi i modi di reagire dei ragazzi quando non si sentono ascoltati, contenuti, guidati. Agli adulti bisogna dare linee guida, ma queste non possono essere date a adulti che non conoscono se stessi, che non hanno intenzione di ascoltare e non si pongono il problema fondamentale di diventare genitori, perché genitori si diventa non si nasce. Così come a scuola diventare educatori non significa avere la laurea o avere una supplenza perché un professore possa essere in condizione di aiutare veramente.
MPP – Professoressa, il quadro che lei sta tracciando è piuttosto sconfortante...
MRP – Non è sconfortante il quadro, ma il fatto che abbiamo il costume di far finta di nulla; fino a quando non arriva la tragedia noi non cogliamo i segnali... È sconfortante che, nonostante tutti gli strumenti di cui disponiamo e i punti di riferimento che potremmo individuare, continuino a prevalere pregiudizio, superficialità, vuoti di comportamenti, consumo. Questo è quello contro cui dobbiamo lottare, perché quando arriva l’episodio drammatico, la morte di qualcuno o il pestaggio di qualcun altro, o la situazione di un ragazzino che magari si toglie la vita a 10 anni facendo prove estreme o come la bambina di Palermo che non respira per vedere quanto tempo resiste, fino alla morte cerebrale, allora vediamo la tragedia. Ma queste situazioni sono anticipate da campanelli d’allarme, da segnali che debbono essere visti. Quello che io mi propongo di fare con la Fondazione Movimento bambino Onlus, ma anche con molte altre attività fin dagli anni ‘74-’75, è di lavorare per i diritti dei minori, per la formazione dei formatori. E in questa ottica per noi la scuola è al centro, rappresenta una grande possibilità. In Italia abbiamo circa 40.000 edifici scolastici strutturati, dotati di personale, che potrebbero diventare centri culturali polivalenti, aperti dalla mattina alla sera, con un’équipe psicopedagogica all’interno per aiutare gli insegnanti e formarli sempre di più, prepararli per costruire un legame positivo con i genitori, che chiedono consigli, invece di diventare eserciti uno contro l’altro, armati. Si potrebbe fare prevenzione, individuando attraverso gli atteggiamenti di disagio dei bambini i campanelli d’allarme che poi ci permettono di agire. Le scuole come poli museali, biblioteche, centri culturali polivalenti e piene di laboratori potrebbero collaborare con tutti i soggetti del terzo settore e del territorio in un’ottica di comunità educante.
MPP – L’esposizione degli adolescenti ai social è un dato di fatto irreversibile, probabilmente. Quali sono i rischi ai quali essi sono più esposti?
MRP – In parte ne abbiamo già parlato; i social stanno diventando un sostituto della socialità, soprattutto in questo momento in cui c’è una pandemia. L’aggregazione sui social ormai sono anni che va avanti; ho descritto questo fenomeno in «Generazione H» dove H sta per Hikikomori, i ragazzi ritirati che non vanno a scuola, che stanno chiusi per 8, 9, 10 ore al computer che diventa come una droga. I social sono ormai un dato irreversibile, ma attenzione... noi dobbiamo dare loro tempi e legalità. Dobbiamo agire il controllo soprattutto sui minori, che si configura come un vero e proprio dovere, dobbiamo far trionfare il loro diritto alla comunicazione ed espressione, dando loro anche la consapevolezza come protagonisti dei rischi che corrono; perché il problema non è penalizzare o svalutare, il problema è capire a che punto siamo e dare ai ragazzi gli strumenti, anche perché loro ne sanno più di noi dei social e del mondo virtuale. Quindi informarci noi, prepararci noi per dare a loro la possibilità di agire sui social da protagonisti di cose positive e non da vittime di agguati e manipolazioni da parte di certi adulti sfruttatori, che stanno mettendo in atto vere e proprie azioni criminali senza che ci sia una regolamentazione adeguata
MPP – C’è una differenza di genere in tutto questo, nel senso che le bambine e le ragazzine sono maggiormente a rischio?
MRP – Le rispondo subito di sì, essendo le donne le sole da cui ha origine la vita hanno questo strapotere che l’epigenetica sottolinea; perché nasciamo tutti xx poi, solo dopo alcune settimane, i maschi diventano xy e si differenziano. Questo strapotere è diventato il controllo del corpo della donna e del femminile da parte degli esseri umani maschi, timorosi di poter avere uno svantaggio rispetto a questo. Tutti nasciamo da una madre, tutti facciamo come prima esperienza di attaccamento, maschi e femmine, quella con la madre; ma questo potere femminile viene stravolto e diventa l’abuso del corpo delle donne, diventa tenere le donne sotto controllo con il pregiudizio e con il limite. Io vengo da una generazione in cui si facevano studiare i maschi perché le ragazzine erano meno intelligenti; ora, se c’è una cosa dimostrata anche a livello scientifico è che le donne sono problem solving, geniali nei collegamenti, multitasking. Grazie alla memoria della razza sanno fare tante cose insieme, contemporaneamente, che offuscano di fatto la capacità di portare avanti obiettivi e progetti da parte dei maschi. Naturalmente tutti abbiamo componenti maschili e femminili, tutti usiamo i due emisferi; mentre quello sinistro è votato al raggiungimento degli obiettivi, degli scopi, ecc., le donne fanno tutto il rimanente. Hanno una notevole capacità non solo di integrare e raggiungere l’obiettivo, ma lo sanno fare con una grande flessibilità e abilità di cogliere collegamenti per trovare soluzioni divergenti e questo è sempre stato il cruccio del maschile. Quindi se non educhiamo le bambine a quali sono i loro diritti inalienabili, se continuiamo a educare i maschi nel mito dell’uomo forte, dello sbruffone, dello stupratore… abbiamo chiaro quello che sta succedendo, c’è stato un aumento del 70% della violenza, dei femminicidi, non parliamo dei massacri dei bambini... attenzione non stiamo parlando di zone di guerra, stiamo parlando di situazioni familiari. Bambini colpiti, massacrati di botte, messi in condizione di difficoltà, abusati. Se la situazione è questa non bisogna solo sottolineare il male, ma bisogna dire che tanto bene si può fare se si conoscono in profondità le cose. Sì, le bambine sono più esposte, perché sono il simbolo del corpo femminile, di quella capacità femminile che deve essere valorizzata e invece viene svalutata e messa all’angolo per un discorso di potere distruttivo.
MPP – La scuola può mettere in atto azioni e attenzioni per prevenire tali rischi? In genere gli adolescenti sono molto gelosi della loro privacy, il loro stesso linguaggio a volte non è accessibile agli adulti. Quali segnali vanno colti? E, soprattutto, come avvicinare correttamente ragazze e ragazzi, per evitare che diventino sfuggenti e vivano un sincero interesse verso la loro integrità come un’invadenza?
MRP – Io direi che gli incompetenti sono invadenti, perché hanno talmente paura di perdere il controllo di qualcosa che non conoscono che finiscono con il diventare invadenti. Io penso che i genitori o diventano veramente competenti rispetto agli strumenti che danno in mano ai ragazzi, oppure, se non lo sono dovrebbero darli loro, perché c’è un’età in cui si è minori e una in cui si è maggiorenni. È chiaro che quando i ragazzi sono maggiorenni è più difficile fare questo discorso, ma molto prima è fondamentale l’educazione a un uso non pervasivo del virtuale, così come il rispetto della loro privacy; non si può dire infatti ai ragazzini di aprirsi e dialogare quando la loro privacy non è rispettata. Ma purtroppo sono gli adulti stessi che spesso non rispettano nemmeno la loro personale privacy, perché litigano davanti ai ragazzi, si espongono in ogni modo... siamo di fatto in una società di spiati e di spioni. Quindi bisogna rendere i ragazzi protagonisti dell’uso di questi strumenti e rispettare la loro privacy; bisogna dire loro, nel caso dei minori che sono affidati agli adulti, guide autorevoli, che siano i genitori, gli educatori oppure gli operatori della comunicazione, che la loro privacy finisce quando non vengono rispettate delle regole. Fermo restando che possono esprimere le loro idee, i loro pensieri; ma tutto questo già lo fanno, la legalità che si lega al rispetto delle leggi deve essere assolutamente espressa e rispettata da loro. Quindi io rispetto la tua privacy fino a quando questa non diventa un pericolo per te, per la responsabilità che io ho di seguirti, di vedere con chi ti colleghi, di sapere cosa fai quando esci con gli amici. È un dovere che però si deve instaurare fin dalla primissima infanzia, deve essere un patrimonio della coppia così come deve essere patrimonio della coppia di genitori moderni l’uso del virtuale, non ne possono fare a meno, è una competenza che debbono avere. Quando ero piccola io avevamo il diario e il fastidio era che i genitori te lo potevano leggere e, detto fra noi, non avevano il diritto di farlo. Oggi i pensieri contro i propri genitori, la propria felicità, le prime esperienze sono tutte virtuali, le foto su Instagram, i messaggi... è tutto virtualmente esposto. Bisogna far capire ai ragazzi che la visibilità che loro cercano come ascolto si può ritorcere contro di loro, ma questo lo devono fare i genitori, gli insegnanti, le forze di polizia postale, gli educatori... Bisogna convincere e coinvolgere gli stessi ragazzi a diventare vigili e attenti, spiegando loro quali sono i rischi, perché spesso se ne accorgono dopo, quando è partita una campagna denigratoria perché una ragazzina di tredici anni ha mandato foto intime al fidanzato e le foto girano poi da tutte le parti. Ora, intanto, intimità non è mandare foto intime al fidanzato, anche se siamo a distanza per il lockdown, perché questo viola la privacy dei rapporti umani che non sono certo riconducibili ai rapporti virtuali. Questi entrano anche nei rapporti umani, ma bisogna saperli usare per non incappare nella violazione della privacy che loro tanto difendono nei confronti degli adulti, mentre invece con i loro coetanei si espongono completamente. Fanno la guerra agli adulti che si infilano nella loro privacy, poi si mostrano in maniera tale che gli altri adolescenti e gli adulti trovano facilmente tutto quello che loro raccontano. A scuola dovremmo avere due materie fondamentali, che oggi faticano a trovare spazio: educazione civica e educazione al virtuale virtuoso. Ci dovrebbe essere una forte mobilitazione, in tal senso, da parte di tutti gli insegnanti e le autorità.
MPP – La stessa domanda vale per le famiglie, che spesso rivelano di non essersi accorte di situazioni potenzialmente pericolose o sottovalutano i rischi, mettendo in mano i cellulari a bambine e bambini sempre più piccoli.
MRP - Molte cose le abbiamo già dette; i genitori debbono educare i figli a un uso consapevole di questi strumenti, ma in modo molto graduale. Da zero a tre anni i bambini non dovrebbero essere esposti a nessun tipo di schermo digitale; dai tre ai sei mezz’ora massimo al giorno, dai sei e fino ai dieci-dodici può essere un’ora al giorno per fare dei giochi, sempre in modo graduale e controllato dai genitori perché i ragazzi non eccedano. È come un cibo, se i ragazzi apprendono a «mangiare» in modo sano, poi si abituano a usare questi strumenti in modo altrettanto sano e virtuoso.
MPP – Per chiudere, quali sono i tre messaggi che sente di lasciare agli insegnanti delle nostre scuole?
MRP – Innanzitutto, ricordare sempre che la cultura è tutto, la cultura è per sempre, come dicevano i greci. Poi avere chiaro che le presenze più importanti nella vita dei ragazzi non sono solo i consanguinei, anzi a volte sono altri; perché la famiglia non è solo questione di consanguineità, ma è lavorare insieme, in squadra, è una questione di generosità, di empatia, di tempi, di rispetto. Bisogna essere consapevoli che gli insegnanti sono fondamentali nella vita di ogni essere umano; io sono una professoressa che ha fatto l’esperienza dell’insegnamento da ragazza lavorando nelle scuole, poi adesso all’università e nelle scuole di formazione in psicoterapia. Credo sia fondamentale far capire agli insegnanti che loro sono tenuti a formarsi, che il loro non è un mestiere qualunque, è una mission; che nella vita dei bambini, preadolescenti, adolescenti a partire dal nido la loro azione è fondamentale tanto quanto quella della famiglia. Mi auguro infine che loro capiscano che stare insieme con gli altri colleghi, misurarsi, formarsi, considerare la scuola come un ulteriore piacere non riguarda solo loro come insegnanti, ma riguarda anche i loro figli. Perché vivere bene la cultura significa avere una grande considerazione della propria vita e della propria mission, è un atto di salute mentale. Infine, che non vadano a scuola solo per dare insegnamenti agli altri ma anche per imparare. Il dovere senza piacere è una persecuzione; scuola nella sua etimologia significa tempo libero, ozio... alla latina, la scuola deve essere il luogo dove si apprende il piacere del sapere. Personalmente io non permetterei a nessuno di dare voti a nessuno. I voti se li diano gli adulti, se li diano le autorità autorevoli perché loro se li devono dare e invece di dare voti ai ragazzi diano il piacere del sapere. E quando ci sono dei blocchi, delle difficoltà ad andare avanti integrino l’intervento didattico con quello psicologico, pedagogico e mettano i ragazzi in condizione di arrivare all’obiettivo e di superare limiti e difficoltà. Chi fa fatica ad apprendere e considera il sapere come qualcosa di difficile o di ostico, certamente nasconde il rifiuto di qualcosa, la sfiducia nei confronti delle autorità autorevoli, in primis i genitori e poi gli insegnanti.