Valentino Pusceddu è dirigente dal 2015 di uno degli Istituti più innovativi esistenti in Sardegna e parte della Direzione Nazionale di “Senza Zaino per una scuola di comunità”. Punto di riferimento a livello nazionale, il movimento “Senza Zaino” unisce oltre 300 scuole italiane che hanno fatto dell’accoglienza, dell’autonomia e della responsabilità i valori fondanti della istituzione che rappresentano.
Che cos’è il progetto della rete di scuole del “senza zaino”?
“Senza Zaino” è una rete scolastica che raggruppa più di 300 istituti presenti in tutte le regioni italiane. Il progetto nasce a Lucca a inizio degli anni 2000, poi si è espanso in tutte le regioni italiane e oggi è una delle innovazioni più importanti a livello nazionale. Alla base del progetto c’è un principio fondamentale legato allo sviluppo dell’accoglienza, dell’autonomia e della responsabilità. Questi tre termini racchiudono una visione della scuola diversa, nuova e ad essi io aggiungo il termine benessere. La metodologia alla base di questa innovazione è un “approccio al curricolo globale”. Nella programmazione e progettazione vogliamo guardare a tutti gli aspetti della scuola, a partire dagli ambienti di apprendimento. La nostra programmazione parte questi ultimi, dai setting interni, ma investe tutti gli spazi, sia interni che esterni all’edificio-scuola fino a toccare quelli della città vicini ai confini scolastici. Abbiamo chiamato questa innovazione “paesaggio dell’apprendimento”; pensiamo infatti che l’apprendimento non occupi solo le aule scolastiche ma sia un processo diffuso e continuo. Anticipando un po’ il patto educativo di comunità che il Ministero dell’Istruzione ha istituito, nel 2019 abbiamo deciso con il nostro Istituto di rafforzare i legami con i soggetti che lavorano nel territorio, del terzo settore in particolare. Non solo, abbiamo voluto coinvolgere anche soggetti istituzionali altri come il Comune e, nel nostro caso, la municipalità di Pirri. Il “patto di Pirri”, per esempio, è un patto molto importante perché ha consentito di sviluppare una coprogettazione e accedere a finanziamenti significativi, rivolti al contrasto della povertà educativa minorile.
Il futuro della didattica a volte sembra coincidere con la digitalizzazione, è così?
Sono convinto che il futuro non possa coinvolgere solo l’aspetto della digitalizzazione, benché questo sia fondamentale. È ovvio che lo sviluppo della nostra società sempre di più si servirà di nuove tecnologie, ma non dobbiamo dimenticare il tema della crescita delle persone. Gli studenti, in ogni azione di apprendimento, sono inseriti in contesti, uno più vicino e altri più lontani, noi dobbiamo prenderci cura di loro e delle relazioni che intercorrono con essi. Oltre all’integrazione della tecnologia dobbiamo ricordare che anche il benessere è un aspetto molto importante. Nella scuola non sempre questo aspetto viene curato adeguatamente e molti ragazzi si confrontano con esperienze negative da questo punto di vista. Nella nostra realtà, al fine di non lasciare in secondo piano tale elemento, abbiamo pensato ad un ambiente all’interno della scuola dedicato proprio al benessere che abbiamo volutamente chiamato “aula benessere”. L’idea di questo spazio nasce da una visione della scuola in cui l’apprendimento si lega sempre di più con il movimento. Spesso vi è un’idea dello studio e dell’attività dell’apprendimento, troppo statica; releghiamo il movimento ad attività specifiche come l’educazione fisica o lo sport post scolastico, ma in realtà il movimento lo si può fare in qualsiasi disciplina ed è fondamentale per un buon apprendimento. Oggi ci troviamo di fronte a una generazione di ragazzi, ma anche di adulti, che devono combattere contro i sintomi dell’ansia o dello stress, spesso determinati da come si vive; sono problemi molto seri e affrontarli all’interno di una scuola, secondo questa metodologia, consente di aprire il contesto scolastico ad una dimensione nuova. Le nostre proposte affondano le radici nelle neuroscienze e negli studi degli ultimi decenni che hanno messo in evidenza l’importanza del movimento per l’apprendimento. Noi stiamo facendo questo, stiamo diffondendo un nuovo modo di apprendere, proponendo anche discipline quasi sconosciute in Italia come la kinesiologia educativa, disciplina che nasce negli Stati Uniti nel secolo passato e che trova nel mondo anglosassone una vasta diffusione.
Cosa manca e cosa invece funziona nella scuola italiana a suo parere?
Cominciamo con il sistema della valutazione, forse un ambito debole della scuola italiana. Il termine valutazione dovrebbe mettere in evidenza ciò che uno studente sa fare e i suoi punti di forza; una buona valutazione serve per rafforzare gli aspetti positivi di una persona, se teniamo a mente questo e lo mettiamo in pratica possiamo intervenire anche su altri ambiti più deboli. Il voto però non dà questa possibilità e per questo il suo uso dovrebbe essere riformato. Oggi c’è un tentativo di guardare proprio al voto come elemento centrale della valutazione, tornando indietro rispetto a dei percorsi che si sono fatti in questi ultimi anni; ritengo questa inversione di marcia profondamente sbagliata e rischiosa. Dobbiamo però vedere e dare risonanza agli esempi virtuosi; anche nel nostro Paese ci sono tanti esempi di sperimentazione che dovrebbero essere valorizzati. La scuola italiana infatti è una realtà dinamica, non è una ferma, ma ha bisogno di rafforzare questi percorsi di innovazione. Rispetto alle difficoltà, credo che la prima, la più grande sia quella di crederci nella scuola, perché noi tutti parliamo della scuola come un aspetto fondamentale della società, un’istituzione indispensabile per una crescita positiva, poi però non siamo coerenti in questo, nelle azioni concrete che facciamo. Basti pensare a quali e quante poche risorse vengono destinate alla scuola. Si pensi anche ai docenti; oggi essere professionisti all’interno della scuola necessita di tante competenze che devono essere alimentate quotidianamente attraverso la formazione e l’autoformazione ma è evidente che il riconoscimento esistente dal punto di vista professionale, e anche sociale, per questo difficile mestiere, è assolutamente insufficiente nelnostro paese.
Dal suo punto di vista, che cosa non dobbiamo dimenticare quando parliamo di una nuova scuola?
Direi i patti educativi di comunità. Oggi la scuola deve avere, lo doveva avere anche in passato in realtà, un forte radicamento territoriale. Cosa significa? Significa essere un punto di riferimento ed essere allo stesso momento un soggetto che si relaziona in maniera positiva con altri soggetti che hanno una funzione nell’ambito formativo. Lo sviluppo dei patti educativi di comunità e di patti territoriali rappresenta un punto molto importante secondo me. Vi porto un esempio concreto di cosa si potrebbe fare: nel 1974, un bel po’ di tempo fa, sono stati ideati i cosiddetti “decreti delegati” i quali hanno dato un’organizzazione nuova alla scuola, dando la possibilità di partecipazione dei genitori a momenti importanti come il Consiglio d’Istituto o la rappresentanza all’interno dei consigli di classe. Questo ha permesso di sviluppare una cultura democratica all’interno della scuola, ma ora è tempo di andare oltre. Ad esempio una programmazione che veda collaborare soggetti istituzionali (Comuni), locali (può essere la municipalità nel nostro caso), ma anche soggetti importanti come sono gli stakeholders, cioè i soggetti che operano in un territorio e danno un contributo sicuramente significativo, è oggi fondamentale. Pensate se le istituzioni culturali e sportive che lavorano con i ragazzi, ma anche con gli adulti, partecipassero alla progettazione, alla programmazione dell’offerta formativa e delle attività educative… non avremmo forse una scuola migliore, più interconnessa con la società e con la realtà che i nostri ragazzi devono conoscere e con cui devono imparare a relazionarsi? E la società stessa, le istituzioni non ne troverebbero giovamento? Sono certo che la risposta sia affermativa.